In attesa dell’incontro di Glasgow arrivano notizie non buone sui possibili risultati. È necessario ripartire dai punti di forza post Covid: città a misura delle persone, mille buone pratiche per imporre comportamenti nuovi.
di Donato Speroni
La grande paura è passata. I centri direzionali non sono più vuoti, i grattacieli hanno ricominciato ad animarsi, il ritorno al lavoro in presenza torna a riempire le città. C’è qualcosa di diverso, però, rispetto al periodo precedente al Covid. La gente ha capito che si può lavorare in modo differente, è meno disposta a sprecare ore nei trasferimenti urbani. Si prevede che le forme di lavoro ibrido, qualche giorno in ufficio, qualche giorno in smart working, continueranno a valere per molte attività.
Tutto questo comporta un cambiamento nel concetto stesso di città? Se lo è chiesto Stefano Cingolani, in un’ampia inchiesta pubblicata dal Foglio.
La città non è muta, vuota o abbandonata, ma resta il luogo dove si consuma la ragion d’essere per una vita in comune. La città non è il problema, è la soluzione del problema.
La riflessione sul futuro delle città si orienta su modelli diversi. In passato, le parole d’ordine erano sostanzialmente due: le smart cities e il riscatto delle periferie. Il progresso era inteso innanzitutto come un processo di collegamento tra gli edifici, nella città cablata, in grado di garantire al meglio tutti i servizi ai suoi abitanti. La grande scommessa era di portare questa qualità della vita anche nelle periferie degradate.
Questi valori sono ancora validi, ma il discorso oggi abbraccia anche altri temi, come la città policentrica con tutti i servizi raggiungibili in breve tempo. In pratica, la possibilità di lavorare anche da casa consente di vivere (e di partecipare alle attività collettive) lontano dal centro, a condizione che tutte le esigenze principali del vivere comune possano essere soddisfatte senza lunghi trasferimenti.
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