La risposta globale al rischio di pandemia che arriva dalla Cina non ha precedenti. Più difficile ottenere questa mobilitazione contro la crisi climatica, nonostante gli appelli sempre più stringenti. Il ruolo dell’Europa.
di Donato Speroni
La lotta al coronavirus ha mobilitato il mondo. Isolamento di intere città, blocco dei viaggi aerei, diffusione degli scanner e dei test, immediata ricerca di un vaccino: sotto la guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e con forti risposte anche da parte degli stati nazionali, il rischio della pandemia è balzata al centro delle cronache e l’umanità sta dimostrando di saperla affrontare, anche accettando costi economici ingentissimi. Non si è mai vista in precedenza una risposta globale a questo livello.
Perché lo stesso non avviene per la crisi climatica? La risposta è facile: il pericolo non viene percepito con altrettanta urgenza. Eppure gli allarmi si moltiplicano. La settimana scorsa abbiamo riferito delle gravi incognite legate allo scioglimento dei ghiacci artici. Ora un segnale molto grave ci viene da Bloomberg green:
Abbiamo dozzine di modelli sul clima che per decenni hanno indicato concordemente quanto tempo ci vorrà per riscaldare il pianeta di circa 3° centigradi. Si tratta di un esito che sarebbe disastroso, con città inondate, crollo delle produzioni agricole, temperature mortali, ma c’era un costante consenso sui tempi di queste complicate simulazioni.
L’anno scorso, invece, senza che lo si percepisse immediatamente, in alcuni dei modelli ha cominciato a fare molto caldo. Gli scienziati che gestiscono questi sistemi partivano dalle stesse premesse sulle emissioni di gas serra usate in precedenza, ma ottenevano risposte molto peggiori, alcune addirittura oltre 5° centigradi: uno scenario da incubo.
Gli scienziati hanno cominciato a confrontarsi sulle ragioni e sull’attendibilità di questo peggioramento. Ci vorranno mesi per mettere insieme delle risposte e ancora non c’è accordo sull’interpretazione dei risultati più scottanti. C’è da preoccuparsi perché questi stessi modelli hanno interpretato con successo le proiezioni sul global warming per almeno mezzo secolo; i loro risultati continuano a fare da sfondo a tutte le più importanti analisi sugli obiettivi climatici, compreso il sesto rapporto enciclopedico dell’Ipcc, che verrà reso pubblico il prossimo anno. Se lo stesso ammontare di inquinamento climatico creerà un riscaldamento più rapido di quanto non si pensava in passato, l’umanità avrà meno tempo per evitare gli effetti peggiori.
Un altro appello drammatico ci arriva dall’australiano Breakthrough – National centre for climate restoration: i ricercatori di questo centro prevedono che se non si interverrà sui fattori che determinano l’emergenza climatica, la nostra civiltà arriverà presto alla fine.
Entro il 2050 i sistemi umani potrebbero raggiungere un punto di non ritorno in cui la prospettiva di una Terra in larga misura inospitale può provocare il collasso delle nazioni e dell’ordine internazionale. Pertanto, s’impone una mobilitazione di emergenza del lavoro e delle risorse, estesa a tutta la società e paragonabile all’impegno che si ebbe nel corso della Seconda guerra mondiale. Una parte di questa soluzione dovrebbe essere un programma tipo piano Marshall per accelerare la fornitura di energia da fonti a zero emissioni e l’elettrificazione al fine di mettere a punto una strategia industriale zero carbon.
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