Quali parole usiamo quando parliamo di crisi climatica, ambiente, povertà e disuguaglianze, energia? Tra nomi fantasiosi, caldo opprimente e alluvioni, una cosa è certa: non è il terrore che ci farà stare meglio.
di Elis Viettone
Crisi climatica, crisi energetica, crisi economica, crisi sanitaria, crisi bellica: è corretto parlare di crisi per tutte queste differenti circostanze? Sì, se restituiamo alla parola crisi il suo significato originario, ovvero l'antico greco κρίσις: culmine, punto di svolta, ma anche distinguere, decidere (vocabolario Treccani). Il problema è che accanto alla narrazione di queste crisi, spesso come comunicatori perdiamo di vista il fine ultimo della corretta informazione, ovvero rendere le persone consapevoli, capaci di scelte per cambiare lo stato delle cose, in vista, nel migliore dei mondi possibili, dell'interesse generale e del bene comune.
Se le parole sono il mezzo che abbiamo per informare, forse dovremmo – comunicatori, giornalisti e tutti coloro che orientano il dibattito pubblico – prestare più attenzione ai termini e ai concetti che esprimiamo per analizzare, definire e affrontare le questioni, ricordandoci di prospettare sempre scenari alternativi e soluzioni razionali.
Soluzioni, certo, perché se agli allarmi non si affiancano costantemente strategie positive di breve, medio e lungo periodo, è anche inutile scriverne. Transforming our world non a caso è il titolo dell'Agenda 2030, firmata dai Paesi Onu nel 2015 per uno sviluppo sostenibile globale. Nell’Agenda è descritto un puntuale programma per eliminare la povertà estrema, passare a fonti energetiche rinnovabili, assicurare accesso a istruzione e sanità a miliardi di persone, salvaguardare l'ambiente e creare benessere e prosperità economica. Proprio su questi temi si concentreranno i lavori del prossimo vertice Onu che a settembre farà il punto sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Si tratta di riunioni internazionali spesso sottostimate, se non ignorate, dai nostri media.
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