Il via libera alla direttiva sulla responsabilità delle aziende ribadisce un principio: il profitto non può calpestare salute e lavoro. Come renderlo concreto è un tema su cui l’ASviS si confronta da tempo. Ora nessun passo indietro.
di Andrea De Tommasi
Diverse notizie di questi giorni richiamano l’attenzione sui limiti e le distorsioni del nostro modello di sviluppo. Il 19 marzo l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, ha diffuso un nuovo rapporto dal titolo “Profits and poverty: the economics of forced labour”, che stima i profitti generati dal lavoro forzato nel mondo. Questi guadagni, che sono in aumento del 37% rispetto al 2014, riflettono i salari effettivamente sottratti alle tasche delle lavoratrici e dei lavoratori dagli attori di questo giro d’affari attraverso le loro pratiche coercitive. Un'altra analisi, condotta dal Parlamento europeo, ha evidenziato gli impatti che l’industria tessile, e in particolare il fast fashion, sta avendo sull’ambiente. Alimentato dalle grandi catene di distribuzione, il settore dei capi prodotti in tempi veloci e a basso costo ha conseguenze enormi in termini di emissioni di gas serra, consumo di risorse naturali e inquinamento idrico.
Al centro di questi fatti c’è la mancata tutela dei lavoratori e dell’ambiente rispetto a un mercato globalizzato e a regole che si trasformano. Se alcune imprese chiedono un ambiente normativo semplificato, è chiaro però che la tutela dell’ambiente e della qualità del lavoro non può essere in discussione. Per questo servono una politica fiscale equa e una legislazione chiara e condivisa, anche per infondere fiducia in un Green Deal che altrimenti rischia di essere un’opzione praticata solo da chi vive nelle parti più fortunate del mondo.
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