La creazione di un fondo per finanziare i danni subiti dai Paesi vulnerabili è un accordo storico, ma il summit egiziano complica il processo di riduzione dei gas serra e non mette in agenda la fine dell’era fossile.
di Ivan Manzo
È andata bene. Anzi, è andata male. Il bisogno impellente di buona parte del mondo dell’informazione di etichettare un processo negoziale così complesso, come lo sono le Conferenze dell’Onu, rischia di farci perdere pezzi importanti di una narrazione che deve accompagnare e indirizzare ogni attività umana – o meglio, antropica - verso la neutralità climatica.
Questa di Sharm el-Sheikh, luogo in cui si è tenuta la 27esima Conferenza delle parti (Cop 27) sul cambiamento climatico, doveva essere la “Cop dell’implementazione” - non a caso il documento finale si chiama “Sharm el-Sheikh Implementation Plan” -, partiamo col dire che purtroppo non lo è stata. Si registra infatti un sostanziale fallimento sul taglio delle emissioni climalteranti e sui piani di adattamento. La presidenza egiziana (in una Cop, in genere, luogo dell’avvenimento e presidenza coincidono) è stata brava a tenere alta l'attenzione sul “loss and damage” portando a casa un risultato storico e positivo. Allo stesso tempo, però, ha volutamente trascurato l’argomento mitigazione, strizzando così l’occhio ai propri interessi di profitto a breve termine - esportazioni di gas - e a quello, in generale, dei combustibili fossili.
Dalla decisione finale, slittata di circa 30 ore rispetto i tempi previsti per via di un accordo che nonostante le nottate fatte dai negoziatori non voleva arrivare, emerge qualche buona notizia e pesa enormemente la mancanza di ambizione.
Il maggior successo è senza dubbio l’istituzione di un fondo “loss and damage”. Se ne discute da tempo - addirittura dal summit di Rio 1992 -, ci pone di fronte alla questione del finanziamento delle perdite e dei danni subiti dai Paesi vulnerabili a causa della crisi climatica.
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